Ennio Finzi: Opere 1951-1958
SOGNI E NON SOGNI: GLI ANNI CINQUANTA DI UN PITTORE IRRITUALE
Luciano Caramel
L’incipit liciniano (da Natura di un discorso, del 1937) merita d'essere completo: "La pittura è l'arte dei colori e dei segni, I segni esprimono la forza, la volontà, l'idea. I colori la magia." affermava il pittore-poeta di Monte Vidon Corrado, per approdare appunto alla precisazione "segni e non sogni", Al di là di improponibili accostamenti al mondo di Licini, tanto carico di cifre, similitudini, simboli, anche nelle opere astratte per le quali furono scritte le parole appena citate, resta la rivendicazione - nell'immagine, non solo nei presupposti di poetica - d'una determinazione in cui prende forma qualcosa di altrettanto concreto, che però nella forma non si esaurisce, che è propria anche di Ennio Finzi. Da sempre. E, per riprendere Licini, in una condizione "errante", vissuta irritualmente. Con tutte le conseguenze in un siffatto stato implicite, che spiegano perché un autore così originale e rilevante, su di un piano nazionale, non abbia mai ottenuto quella comprensione, e quindi considerazione, che il suo lavoro merita. Basterebbe rivolgersi all'avvio, quanto mai precoce, di Finzi per cogliervi già i segni d'una vocazione e d'un destino. Serie arcobaleno è del 1951, quando il pittore aveva giusto vent’anni. Un'età naturalmente più incline all' appropriazione che all' invenzione, al guardarsi attorno piuttosto (o più che) dentro. Invece ci troviamo di fronte a un risultato irriducibile all' ambiente che circondava il giovane artista. Nessuna traccia, innanzi tutto, della "venezianità", che pur sarebbe stata ovvia, con quanto di naturalistico - frante atmosfere, riflessi, tonalismi - essa inevitabilmente comporta, anche allorché ci si proponga obbiettivi non mimetici (senza cioè, per essere chiari, "amarcord" vedutistici). Non solo. Finzi appare qui sorprendentemente immune dall'influenza di autori, come da un canto Vedova e dall' altro Santomaso, che pur potevano costituire un polo d'attrazione per chi, come lui, s'affacciasse allora alla scena dell' arte, dopo gli equivoci, proprio in gran parte veneziani, del pasticcio Fronte Nuovo delle Arti. L eco dei quali è invece in qualche misura registrato nelle opere che Finzi aveva eseguito l'anno prima: delle superfici monocrome (giallo, arancio etc.) su cui egli dipingeva delle barre nere, con un occhio alle partizioni di Mondrian, ma con un altro alle implicazioni contenutistiche realiste, che il titolo, Fabbriche, denunciava. Finzi lavorava allora, dal 1949, come aiuto di studio di Vedova, che si trovava in un' analoga condizione, tuttavia risolta, è ben noto, in tutt' altro modo, nelle puntute, dure, geometrie che si incontrano-scontrano sul piano di lavori come Campo di concentramento o Trittico della libertà, per restare nel medesimo 1950.
Prima ancora, giovanetto, nelle sue primissime prove Finzi aveva prestato l'inevitabile tributo ad una figurazione romanticheggiante, con accenti richiamanti la scuola romana (e soprattutto Scipione), ma con ripercussioni anche da un Matisse, un Braque e un Picasso. Parallelamente aveva tuttavia coltivato l'interesse, vivo dall'infanzia, per la musica, che gli apre orizzonti nuovi sul piano stesso delle possibilità del linguaggio. Le stesure timbriche di Arcobaleno e poi di tant'altri quadri degli anni seguenti hanno la matrice prima nell' atonalismo schonberghiano, accostato nei concerti che Finzi poteva ascoltare a Venezia. Ed è questo l'antidoto nei confronti di astrattismi geometrici e di razionalismi vincolanti che gli consente di evolvere l'iniziale attrazione per il neoplasticismo in quei termini di libertà che questo libro documenta e quindi, ancora in quel decennio, e poi più largamente in seguito, di affrontare il registro analitico senza cadere nella trappola del compositivismo, che finisce col reintrodurre nel moderno le convenzioni più usurate analitico senza cadere nella trappola del compositivismo, che finisce col reintrodurre nel moderno le convenzioni più usurate.
Per questo suo muovere da matrici differenti da quelle dell' avanguardia neoplastica, suprematista, costruttivistica e quindi concretista Finzi nulla ha a che fare con le correnti italiane formaliste: né con “Forma”, legata a filo doppio ai precedenti storici di Magnelli o del futurismo di Balla e Prampolini, e quindi attiva entro registri in sostanza armonici; né con l"'Astrattismo classico" fiorentino, attestato su di una strutturalità più dura; né con le varie anime del MAC (il Movimento Arte Concreta) milanese, e in particolare proprio, al di là dei rapporti personali, con quella incarnata da Soldati, che, come è del resto comprensibile, continuava ad esser animato dalla tensione ad una integrità formale radicata nelle esperienze degli anni Trenta, vissute da protagonista. Anche per ciò Finzi, fin dalla metà di questi anni Cinquanta, si troverà a percorrere ricerche e risultati poi diffusi nel successivo decennio, fuori d'ogni ipoteca "astratto-concreta" (e ovviamente nulla avrà mai a che fare con l'aggregazione, alla fin fine solo strumentale, degli "Otto", né tanto meno con le teorizzazioni venturiane).
Si è detto delle ripercussioni sulla formazione e sui primi sviluppi artistici di Finzi dell' atonalismo di Schonberg. Non della formalizzazione dodecafonica, va precisato, per l'implicita reintroduzione attraverso di essa d'una normativa limitante quella espressività medesima che il nostro pittore amava nel maestro austriaco e nei suoi seguaci della Scuola di Vienna. Come del resto in Kandinskij, che a Schonberg era in quella fase vicinissimo, nella difesa de "le risonanze interiori, che sono la vita dei colori", contro quel "disperdere nel vuoto le forze dell' artista" che "è 1'arte per l'arte", per usare le sue stesse parole ne "Lo spirituale nell'arte", che non so se Finzi a quel tempo avesse ancora letto, ma con cui certo avrebbe concordato.
Lo comprese bene Toni Toniato, che in un ormai lontano testo, del 1969, che tuttavia resta a tutt' oggi il più puntuale ed organico su Finzi, scrisse appunto, riferendosi proprio a queste prime opere, che "l'evidente struttura astratta da cui emergono quelle forme, spesso di una visione ancora organica, proviene da una profonda concentrazione interiore, riprendendo" 1'artista, "dalla stessa concezione di Kandinskij, i modi più significanti ed autonomi di una rappresentazione di emozioni dinamiche e di forze spirituali libere e spontanee".G Finzi, continua Toniato, "non si accontenta di fare della visività un problema di coscienza razionale, bensì la pensa come una attività ordinata attraverso la quale estrinsecare ed oggettivare l'intero processo della realtà che si compie nell' esperienza individuale. Egli intuisce che la superficie, più che uno schermo su cui filtrare o fissare le immagini, può invece assumere il valore di un "habitat" organico, in cui i fenomeni della visualità si riflettono infatti e con l'imprevedibilità del caso e con l'intenzionalità dell' esistere, riconoscendo quindi l'importanza dell' atto estetico sia nella sua intrinseca natura e strutturazione logica come nella funzione dei contenuti immaginativi del suo messaggio. Domina la sua pittura una volontà di equilibrio fra calcolo e intuizione, fra 1'esigenza dei procedimenti razionali e le mozioni suggerite da una natura contemplativa, sostanziata di stati d'animo e di emozioni esistenziali". Per cui, osserva sempre il critico, "il problema del colore si postula già in questa prospettiva nella sua concretezza fisica ed ottica da risolvere però plasticamente secondo le figure formali di una visualità astratta. Con queste intenzioni Finzi procede a realizzare un sistema spaziale del quadro in cui le forme assumono il significato di presenze luminose dal flusso continuo, ordinate in eventi cromati ci e in ritmi multipli".
Le considerazioni di Toniato, nei ripetuti accenti posti sul controllo razionale, potrebbero sembrare influenzate dalla direttrice assunta da Finzi dai finali anni Cinquanta e proprio in quel momento, quando quelle righe venivano scritte, all'acme d'una rigoristica ricerca ottico-percettiva, che opportunamente si voleva collocare entro una bipolarità di componenti che in Finzi è costitutiva: sia nell' alternanza che in tutto il suo itinerario ci fa assistere al succedersi di fasi effusive e di concentrazione centripeta, sia nella compresenza di entrambe le condizioni, naturalmente diversamente graduate, in ogni momento, anzi in ogni opera. E come in quei mandala scientificizzanti s'insinuerà un brivido irriducibile al mero effetto meccanico (perché la percezione, in ogni caso, non è una convenzionale risultanza di procedimenti oggettivi, ma anche perché l',autore non poteva accettare che fare arte si riducesse "alla dimostrazione di un metodo" o "alle applicazioni di una teoria, seppur validamente formulata"), così in questi dipinti in cui era andata al contrario crescendo l'urgenza d'un segno-colore libero, fino alla gestualità, in un affollarsi di presenze emozionali, si conservava, determinante, una trama di controllo mentale, con effetti di distribuzione ed organizzazione spaziale, certo non a priori, non pregiudiziale, ma tale da impedire qualsiasi occlusione istintuale automatica che appiattisse l'espressione su di un ingorgo autistico.
Ecco, per restare tra le opere qui riprodotte, del resto spesso tra le maggiori di tale periodo (e per lo più inedite, salvo alcune esposte nel 1987 nella Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti a Verona), Risonanze e Figure cromatiche (tavola 3) del 1951 o Genesi e Contrasti del 1952, in cui è evidente la calibratura dei nessi tra i grumi segnici, più o meno strettamente accompagnati da zone più ampie di colore, o da pennellate maggiormente marcate, anche per le dimensioni, e il fondo, certo non inerte, e anzi talora lievitante, ma con funzioni insieme di contrappunto e di definizione spaziale, entro la pittura, ma con risonanze che sforzano i confini del supporto, del quadro, come i medesimi tracciati segnici e, in altro senso, l'elastico palpitare delle masse cromatiche. Fuori di criteri impaginativi tradizionali, e scontati, si ha così un "ordine" quasi allo stato nascente, dato come nel suo primo, autorale proporsi, nel suo farsi, insomma, carico di energia. Come del resto in altri dipinti contemporanei (Diagrammi timbrici, del 1952, o l'anno prima nelle Figure cromatiche qui pubblicata nella tavola), ove s'assiste invece al diffondersi sull'intera superficie degli episodi segnici, sino, quasi, ad attestare l'immagine sul piano. Quasi, s'è detto, perché in realtà nell'opera del 1952 le deflagrazioni bianche sulla sinistra e rossogialle sulla destra provocano dei punti di aggregazione che impediscono la totale risoluzione nelle due dimensioni, contraddetta inoltre dalla pluralità di livelli originata dai segni medesimi e dai loro colori (il bianco sottostante al rosso, ma anche gli scarti di rossi e gialli), nonché dalle trasparenze, protagoniste in Figure cromatiche.
A Finzi interessava la liberazione di eventi figurali dinamici, che la rinuncia ad una complessa articolazione spaziale avrebbe fortemente limitato (o addirittura impedito). Lo si può verificare nei lavori che seguono, ancora entro il 1952 e nel 1953, nei quali è seguita la via della distribuzione di più episodi a differenti livelli di profondità, oltre che di estensione in orizzontale. Per cui l'indubbia partecipazione di Finzi alla temperi e informale non solo è tra le più precoci in Italia, ma non si limita all' orecchiamento esterno di tecniche e metodi, che il pittore aveva potuto studiare nella stessa Venezia. Qui, già nel 1948, la Biennale aveva presentato la raccolta di Peggy Guggenheim, con opere, tra l'altro, di Gorky, Pollock, Baziotes, Motherwell, Still, che resteranno da allora nel palazzo veneziano della collezionista americana, trasferitasi nella città lagunare. E nel 1950, l'anno appunto in cui Finzi matura il suo orientamento, dopo le prove di rielaborazione "neoplasticà' di cui s'è detto, ancora la Biennale (che ospita anche una mostra storica del Blaue Reiter, con dipinti di Kandinskij, oltre che degli altri attori di quella situazione) consente di conoscere meglio l'action painting americana, nell' antologia proposta dal padiglione USA. di dipinti di Gorky, de Kooning e Pollock, al quale ultimo, da luglio, il Museo Correr dedica una importante personale. Finzi fa certo tesoro di quegli esempi.
Ma il loro apporto è ancora una volta da metter sul conto soprattutto dell'aiuto alla liberazione da remare armoniche e compositive. E perciò da accostare allo stimolo che l'artista deriva dalla frequentazione della musica jazz, nella direzione, di nuovo, dell' apertura a valori timbrici e ritmici, alla loro espressività: al di là di accenti di pittura più tradizionale, spesso, di fatto, perpetuati nell' espressionismo astratto medesimo, e ancor più nell'informale europeo in quello, particolarmente, diffusosi in Italia, con costitutivi compromessi che in molti casi, anche illustri, giustificano il parlare di ricorso strumentale ai riferimenti informali, piuttosto che di sostanziale, interna adesione ad essi. Per questo il caso di Finzi non appare assimilabile alla vicenda degli spaziali veneziani, neppure di Guidi, che pure gli fu vicino. Né, d'altro canto, appare lecito un avvicinamento, sia pur problematico, alle ricerche dei nucleari. L’originalità, e rilevanza, di queste prove di Finzi sta nella sfida d'una pittura che non intende esaurirsi nella scarica emotiva del gesto, che non vuol ridursi a traccia (o anche solo memoria) d'un evento, e vuol invece preservare quella “durata” che da sempre della pittura è propria. Tuttavia liberandola da connotazioni armoniche e tonali.
Come ha puntualmente osservato Dina Marangon, guardando anche alla posteriore produzione dell' artista, che siffatta anima di base conferma e sviluppa, Finzi ha "ben presto mostrato di porre a fondamento della propria pittura una irrinunciabile concezione del colore: eideticamente inteso ben oltre i confini di ogni mera materialità, nella sua sostanziale molteplicità insieme come apparenza essenziale ed orizzonte di ogni possibile rapporto con il reale". Il richiamo ad Husserl è pertinente, se lo si libera da implicazioni eccessivamente idealistiche. Anche per Finzi (nei fatti, non ovviamente a livello teoretico) vale il "ritorno alle cose stesse", con quanto ciò implica di riaffermazione dell' esperienza della coscienza. Ed il colore non può ridursi a pura questione di pigmenti e di manipolazioni fisiche. Anche nei suoi riguardi va messa in atto, per riprendere i termini del filosofo tedesco, una epochè che permetta la manifestazione della realtà nella coscienza, appunto. Sta qui anche la ragione della non allineabilità dell' artista al clima esistenzialistico, che invece, in Europa in particolare, e nelle formulazioni soprattutto sartriane, è collegato al radicalismo soggettivista degli informali. Del resto, manca pure a Finzi la componente surrealautomatica, se non nelle sue possibilità, ed esiti, strumentali. Per cui verrebbe piuttosto da pensare, a questo punto, al possibile apporto della gestualità di Vedova, al nostro ovviamente ben nota: non certo nel senso di influenza stilistica, ma in quello di incentivo, o conforto, alla liberazione del segno.
In questa dimensione, mentale e quindi espressiva, nascono le figurazioni energetiche del Finzi degli anni Cinquanta, con "traiettorie di luce", per citare Toniato, "vettori di colore, spettroscopie di un mondo dalle vivide e cangianti combustioni, dai magnetismi contrastanti portati a essenzializzare, nella figura della mente, la materia cosmica che regola la vita. Ampie curve generatrici solcanti il cosmo oppure segni incandescenti della forza propulsiva all'interno dell'immagine cromatica, delle sue trasmutazioni nell'itinerario infinito della luce": "risultato di un procedimento, evento visuale e poetico, quale causa e oggetto, dimensione della nostra emozione e del nostro essere". È sotto il segno d'una tale globalità che va inteso il lavoro di Finzi. Sta in ciò la sostanziale unità del suo percorso, ed anche la coerenza, nel senso di evoluzione non subordinata ad una contemporaneità intesa in termini di "progresso" (come si sa improponibili per 1'arte) o, peggio, di diretta frizione con 1'attualità. Ce lo precisa d'altronde lo stesso pittore che con solo apparente taurologia ha chiarito: "Non so se come artista io appartenga agli anni Cinquanta, Sessanta o Ottanta; di diritto comunque mi spetta 1'appartenenza agli anni in cui operarono e operano gli artisti della mia generazione. Voglio dire cioè che lo svolgimento di una ricerca artistica è sempre in stretta relazione alle generali e complesse ragioni storiche di un tempo che ben difficilmente può essere codificato in misure decennali. Decenni che mi sembrano limitare i fatti dell'arte alle oscillazioni del gusto, alla temporalità di scadenze che riguardano più il mercato della critica che le ragioni del fare artistico. Il concetto di contemporaneità, dal mio punto di vista, ha un significato ben più ampio e indecifrabile rispetto all' abuso di identità che si vuole significare oggi, secondo modi e usi di comodo." Ecco allora, per tornare agli anni che qui più direttamente ci interessano, che non meraviglierebbe più di tanto se dipinti come Scale cromatiche D fossero veramente del 1952, secondo la datazione improbabile di una vecchia monografia. La divergenza, o addirittura l'opposizione, tra consimili immagini e quelle segnico-gestuali è infatti di forma, non di sostanza, di linguaggio, non di "senso". C'è infatti pure in essi quell'indisponibilità ad un discorso asseverativo, immobile, dogmatico, di estraneità tra cosa e coscienza della cosa che sempre caratterizza quanto esce dalle mani di Finzi, il quale non sarà infatti mai attratto dall' à plat araldico dei concretisti, con ciò che di chiuso, di auto riflessivo esso comporta, come del resto dall'effettismo tutto prevedibile dei giochi "op", che si risolvono in esercitazioni illustrative, solo a posteriori, dei portati della scienza. C'è invece, in essi, quella tensione all'unità nella totalità che è propria della Gestalt, del suo costitutivo rivolgersi alla globalità del vissuto percettivo e alla pluralità delle sue componenti, coagenti e non separabili (con ben note tangenze-connessioni con la fenomenologia husserliana, per cui, del resto anche sotto questo punto di vista il conto torna). E se i quadri appena citati appartengono verosimilmente ai primi anni Sessanta, troviamo però anticipazioni di quella via - complementare, se vogliamo, e interagente - in opere certamente contemporanee a quelle di tono "informale". Si consideri ad esempio Figure cromatiche del 1952 e si noti la calibratura dei singoli episodi in primo piano e la loro sistemazione sullo sfondo, elastico, privo di qualsiasi inerzia convenzionale, che creano una situazione di sospensione, insieme determinata e imprendibile, in un tempo come fuori del tempo. Dove sono intuibili le "ragioni" dei rapporti cromatici e spaziali, ma come attraverso un filtro, che porta in campo i valori della coscienza, esaltando appunto la costitutiva pluralità del percepire.
C'è quasi, in questa rarefatta immagine, il riaffiorare della capacità di definizione dell'indefinibile che era stata di un Malevic, seppur, è evidente, entro coordinate imparagonabili. E non solo linguistiche. Però, anche qui, con un'affine irriducibilità allo schema, all'analisi parcellizzata, ad una oggettualità ferma, ottusa. Non c'è, in Finzi, il "nulla liberato", né il connesso spiritualismo. Non è tuttavia assente una spiritualità non ontologica, come appropriatamente ha notato di recente Marangon, riferendosi a tele del 1990, "nelle quali grandi zone di colore denso e compatto si alternano ad ampie fasce dinamizzate e come direzionate all'estremità da vibranti, anche se semplici e raccolte, concrezioni segniche, o a larghi, leggerissimi piani cromatici limpidi e trasparenti che sembrano librarsi con libera, ma equilibrata composizione, nell'immenso biancore, continuo ed immacolato della telà'. "In tali opere", aggiunge Marangon, "il pittore non solo sembra risalire alle fonti stesse dell' astrazione contemporanea, rammemorando autonomamente sia la suprema originarietà formativa della pura sensibilità manifestata da Malevic che le profonde esigenze di chiarezza, d'ordine e di superamento dell'accidentalità avanzate da Mondrian e dai Neoplastici, ma pare altresì sospendere e superare ogni aprioristica e perentoria istituzione di strutture 'ermeticamente' presupposte e immodificabili, ponendo in atto un nuovo rapporto tra il puro darsi del colore e la infinita virtualità della libera vastità della tela, nell' orizzonte di una pittura che non accetta di ridursi alla propria mera evidenza fattuale, ma con la freschezza dello sbocciare, dell' apparire si pone come libera e felice apertura all'eventicità del reale, al sempre nuovo, all'altro". "La pittura di Finzi pare così", conclude il critico, "per certi aspetti, attingere persino ad una laica ed immanente dimensione del sacro". E precisa trattarsi di "una dimensione peraltro affiorante anche in alcuni altri notevoli esiti della sua produzione: basti pensare agli splendidi 'monocromi' della fine degli anni '50". Marangon si riferisce ad opere del 1959 come Rosso su rosso, Blu su blu, Giallo su giallo, qui non riprodotte, in cui l'uniformità della stesura cromatica sull'intera superficie quadrata è interrotta solo al centro da una striscia in cui la luminosità del medesimo colore gradualmente si accentua, producendo un effetto di misteriosa allusività, caricata dall'imponderabilità dell'immagine e dalla centralità di quell'accrescersi della chiarezza e della sua ambiguità percettiva, nell' offrirsi essa all' occhio in una posizione non definibile nei confronti del piano. Né è estraneo all'esito "sacrale" di tali icone elementari (in un certo senso letteralmente "suprematiste", secondo l'accezione maleviciana di "mondo affrancato dall' oggettualità") l'uso dell'aerografo, che indubitabilmente rende più eterea la figurazione. Quelle osservazioni di Marangon già possono d'altronde ben essere attribuite alle Figure cromatiche del 1952, seppur con minore assolutezza. E ancora, per ricordare solo opere pubblicate nel presente volume, ad un lavoro singolare come Verde Rosso del 1955 o ad un altro dello stesso anno, Stelle nei miei occhi. Nel primo, una massa cromatica triangolare verde abbastanza compatta, ma non uniforme (è ottenuta con sottili segni, che nel vertice collocato in alto si diradano, lasciando trasparire il fondo), è accampata nella parte superiore di un quadrato rovesciato, anche qui come sospeso, e quindi fuori (nonostante il ricorso al particolare posizionamento del supporto, che parrebbe una citazione) della normatività mondrianesca. C'è si, pure in questo Verde Rosso, l'incontro-dialettica di universale e particolare, l'equilibrio dinamico del maestro olandese, ma fuori dell'assertività a lui propria, con un conseguente spessore meditativo, che ritroviamo anche in Stelle nei miei occhi. Però con una qual accensione visionaria, come ci si trovasse di fronte ad un' apparizione, all'epifania d'un accadimento improvviso, che potrebbe anche essere d'ordine cosmico, come del resto in molti altri dipinti di Finzi, anche di quelli segnici e gestuali. In Germania 2, ad esempio, del 1952, o in Invenzione, in Simultaneità cromatica, in Ritmo origine del 1953. O, più tardi, in Spazi freddo, Spazio lirico del 1954, in Dissonanze, Simultaneità, Figura cromatica del 1955, in Il canto sommerso del 1956, in Blu incombente del 1957. Nel citato Sovrapposizione del 1953 troviamo addirittura, come del resto dichiara il titolo, due ovali, che ricordano la nebulosa di Stelle nei miei occhi, che coprono parzialmente l'intreccio di segni veloci del fondo. Il che ci deve far riflettere sul senso dell'alternanza di soluzioni linguistiche propria di Finzi, che non contraddice, ma rende peculiare la coerenza del suo corpus pittorico da individuare, ormai dovrebbe risultare evidente, non negli stilemi in quanto tali (la cui varietà parrebbe giustificare la qualifica di eclettico, invece del tutto impropria), ma in qualcosa a quelli sotteso e che quelli determina. Per cui il dividere l'iter dell' artista in cicli e periodi, ancorché giustificato e anche naturale, trattandosi oltre tutto ormai di quarantacinque anni di attività, non deve andare a scapito del riconoscimento di quel filo rosso che corre attraverso le varie fasi più o meno evidente, e talora attivo con ritmo carsico, passando dalla manifesta evidenza ad un fluire sotterraneo, da intuire, quindi, e scoprire.
Ma, accompagnati da queste considerazioni, torniamo allo svolgersi della pittura di Finzi, che tra il 1955 e il 1956 registra ad un grado più elevato che in precedenza (di nuovo 1'alternanza, e nell'identica congiuntura) insieme l'infittirsi e il farsi più irruente del segno, con accenti ora di esplicita gestualità e con la radicale attenuazione del gioco figura-sfondo, a tutto favore del protagonismo della prima, e, invece, la volontà di attingere una rarefazione quanto mai essenziale e reticente. Appartengono alla prima direttrice operativa, ad esempio, Assonante Dissonante, Dissonante (tavola 35), Dissonanze, Dissonante (tavola 39), Partitura, Atonale del 1955; Caos segnico, Antipittura (tavola 54), Sentimento jazz, Partitura jazz, Caos, Antipittura (tavola 63), Partitura (tavola 67) del 1956. Mentre sono svolti sul secondo registro, seppur in modi diversi, nel 1955, oltre che i già esaminati Verde Rosso e Stelle nei miei occhi, Timbrica, Il segno verde, Diagrammi timbrici, e in un certo senso anche Acromatico, Ogiva Rosa, Simultaneità, Figura cromatica; e nel 1966 7ènsione luce, Scale cromatiche, Timbrico, Disintegrazione luce, Timbrica jazz, Spazio fluido, Spazio lirico. In entrambe le "serie" spicca peraltro lo scarto, netto, dichiarato (questo vuoi significare il ricorrente titolo Antipittura) da un dipingere che con efficace quanto impietoso termine francese si suole chiamare "cuisine": un dipingere fatto di eleganze, gustosità, d'un manierismo spesso ai limiti del manierato, con radici anche nostrane nella tradizione accademica ed in una predisposizione tutta italiana all'eleganza e all' armonia, che in quel secondo dopoguerra era incoraggiato e aiutato dalle fortune di certo postcubismo, e poi tachisme, transalpino. Che Finzi - rara avis - contrasta. Anzi neppure mostra di avvertire. Di qui, anche, la preferenza medesima per la tempera, piuttosto che per l'olio, nonché quella, collegata, per i colori timbrici, e poi per gli effetti fluorescenti, entro una dominante "artificialità", se così si può dire, che sempre innerva il fare dell'artista veneziano.
In un simile polimorfo contesto si innestano pure altre, sin qui non ricordate, sperimentazioni di Finzi. Penso all'attenzione per grafismi quasi scritturali, d'una scrittura ovviamente non formalizzata, che segue le pulsioni emozionali ed inventive, fino ad evocare i segni calligrafici orientali (Il segno verde, Diagrammi timbrici, del 1955; Timbrica jazz del 1956; Spazialità timbrica del 1957; Ritmi vibrazione, Rosso e giallo, Segno-colore, Il giallo su rosso del 1958). Ma anche all'emergere, negli anni Cinquanta saltuario, di quel rivolgersi analitico alle scale cromatiche, ai timbri, alle variazioni di intensità luminosa che in seguito, negli anni Sessanta-Settanta diverrà prioritario, e sistematico. Si guardi al proposito Scale cromatiche del 1954, con 1'opposizione tra la pesante zona superiore, che incombe come una mannaia, e 1'aerea successione di colori che in basso apre liberi orizzonti, sino, quasi, a far cambiare direzione, spingendolo verso 1'alto, contrastandolo, al greve elemento che la sovrasta e cela, vivibile anche quindi, forse, come una quinta che si alza, che scopre una diversa realtà. E ci si soffermi infine sullo splendido Scale cromatiche del 1956, sorprendente nel contesto degli altri quadri che lo accompagnano, ma nel contempo, se si supera la prima impressione, del tutto conseguente. Lo si confronti con Timbrico della tavola successiva, e si toccherà con mano cosa voglia, e possa, dire una pittura di segni che riesca a non farsi incatenare dai riti d'una maniera spacciata come coerenza, non meno perniciosi (ai fini creativi, non certo a quelli di mercato) di quelli d'un avanguardismo (che non vuol dire avanguardia, che è realtà del resto oggi, e da decenni, improponibile, nei termini almeno di inizio secolo) che confonda il nuovo con il diverso. Secondo un'irritualità che, lo si è detto, è costata sinora a Finzi il riconoscimento di quel posto di primo piano che in ogni caso egli s'è conquistato sul campo, sul campo della pittura.